In Italia, nell’anno 2021, non esiste ancora una definizione giuridica o una specifica normativa dedicata al <<bullismo>>, a differenza di quanto accade per il cyberbullismo cui è invece destinata la legge n. 71 del 2017.
Difatti, in materia di bullismo soccorrono norme sia civili che penali, ma non una normativa ad hoc, sebbene ricorrono diversi disegni di legge tesi a realizzare una organica disciplina del fenomeno, volta ad unificare anche in un unico corpo normativo bullismo e cyberbullismo.
Un lavoro encomiabile sotto il profilo giuridico è rappresentato dal “documento approvato dalla commissione parlamentare per l’infanzia e l’adolescenza nella seduta del 29 ottobre 2019, ad opera della relatrice Licia Ronzulli”, in cui si esprime la necessità di insistere sulla prevenzione e sulla formazione, piuttosto che sulla funzione repressiva penale del fenomeno.
In assenza di un attuale inquadramento normativo specifico, in ambito penale gli atti di <<bullismo>> vengono ricondotti di volta in volta dall’interprete nell’ambito dei reati di molestie, minaccia, stalking, estorsione, diffamazione, percosse lesioni, sostituzione di persona, accesso abusivo ad un sistema, trattamento illecito di dati.
Al riguardo va precisato che l’atto di bullismo segue le regole generali secondo cui il minorenne che ancora non ha raggiunto il 14° anno di età non è imputabile (art. 97 cp): laddove il minorenne abbia un’età compresa tra i 14 e i 18 anni la responsabilità penale non è automatica, in quanto l’accertamento della capacità d’intendere e di volere è rimessa al Tribunale per i Minorenni, nell’ambito di un procedimento retto da disposizioni specifiche, contenute nel D.P.R. 22 settembre 1988, n. 448. In ipotesi di condanna, la struttura carceraria è comunque diversa da quella del circuito degli adulti: l’Istituto penale per i minorenni è un luogo di restrizione i ragazzi possono permanere fino al compimento del 25° anno di età (art. 5 del D.L. 26 giugno 2014, n. 92, convertito con modificazioni con Legge 11 agosto 2014, n. 117).
Sotto il profilo civilistico, che attiene ad aspetti “risarcitori”, il tema è retto da norme di carattere generali contenute nel codice civile. Al riguardo è possibile affermare che la responsabilità giuridica degli atti di bullismo può anche ricadere sul bullo minorenne, ai sensi dell’art. 2046 c.c., secondo cui “chiunque è autore di un fatto lesivo risponde esclusivamente nei limiti in cui è in grado di comprendere la portata ed il significato della propria condotta, purché lo stato di incapacità non derivi da sua colpa”. In tal caso, il minorenne è chiamato a rispondere degli atti di bullismo, insieme ai genitori ed alla scuola: tranne le ipotesi in cui il minorenne ha compiuto il fatto in uno stato di incapacità di intendere o di volere, ove soccorre l’art. 2047 c.c. prevedendo una responsabilità sostitutiva in capo a colui che era tenuto alla sua sorveglianza.
In ogni caso, concorrono sempre le responsabilità dei genitori (culpa in educando), della scuola e dei docenti (culpa in vigilando ed anche in educando), dell’istituzione (culpa in organizzando). L’art. 2048 c.c., 1° comma, prevede che “Il padre e la madre, o il tutore sono responsabili del danno cagionato dal fatto illecito dei figli minorenni non emancipati o delle persone soggette alla tutela, che abitano con essi”.
La responsabilità dei genitori non è oggettiva e assoluta, se dimostrano di non avere potuto impedire il fatto, o di avere adeguatamente educato e vigilato il figlio. Se il figlio non è capace d’intendere e di volere, devono dimostrare anche la stretta sorveglianza e che, nonostante ciò, non hanno potuto impedire l’evento dannoso. L’affidamento a terzi solleva il genitore soltanto dalla presunzione di culpa in vigilando. Gli insegnanti possono essere ritenuti responsabili del danno causato dall’atto di bullismo del minorenne, purché questo sia stato commesso durante il tempo in cui è sottoposto alla loro vigilanza. Il risarcimento è, invece, a carico della scuola per la responsabilità contrattuale ex art. 1218 c.c., se non prova che l’inadempimento o il ritardo è stato determinato da impossibilità dalla prestazione derivante da causa a lui non imputabile.
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